Con L’ultimo Inquisitore (Goya’s Ghosts, 2006) Milos Forman ripercorre gli anni più tormentati e intensi dell’attività pittorica di Francisco Goya (Stellan Skarsgård), e lo fa con un film si biografico, ma carico di riflessioni intorno allo statuto del potere politico e al carico ideologico che lo sorregge.
La vita del pittore è quasi un pretesto per un’indagine molto convincente della realtà socio-politica della Spagna a cavallo tra gli anni dell’ultima fiammata della Santa Inquisizione e l’invasione napoleonica, che spazzò via l’ancien regime istituito dai Re Cattolici, abolendo l’Inquisizione ed esportando, sebbene con la violenza della rivoluzione, gli ideali dei pensatori illuministi.
Tra visioni del mondo contrastanti e in lotta tra loro, cariche di pregiudizi ideologici che ne impediscono una sintesi alternativa alla violenza, si pone al centro l’arte di Goya.
Artista sensibile e attento a vivere il proprio tempo, dipinge ciò che vede, senza fronzoli, senza sublimazioni o abbellimenti. E così dei Reali di Spagna possono essere «brutti» sulla tela, se lo sono nella realtà. A Goya non interessa celebrare il potere; lo rappresenta nella sua dimensione umana, egualitaria. Goya, come tutti i grandi artisti, è già oltre il proprio tempo, è già oltre la rivoluzione.
L’occhio attento del pittore però deve confrontarsi con un mondo in lotta. Assiste alle brutture della guerra, ne vede gli orrori come prima vedeva gli orrori dell’opprimente potere ecclesiastico. Goya sublima queste immagini nella sua produzione artistica, immagini che però lasciano una traccia, spettrale.
Di qui i fantasmi da cui Goya è ossessionato, immagini cruente che attanagliano la sua mente e che ripropone con la sua sublime tecnica pittorica. Ma la narrazione delle vicende è filtrata da un personaggio coessenziale a quello del pittore spagnolo. Si tratta di Padre Lorenzo (Javier Bardem), prima fervente sostenitore del massimo rigore dell’Inquisizione poi convertitosi alla causa dei rivoluzionari napoleonici.
Antieroe della narrazione, è icona prima di quel «sonno della ragione» che notoriamente Goya rappresentò in disegno al fine di denunciare l’ottusità della fede, per poi diventare il simbolo della cecità della ratio in borghese, incapace di uscire dai propri angusti confini ideologici, difesi ed esportati con la violenza delle armi.
Tra questi due poli si muove un terzo personaggio, Inès (Natalie Portman), giovane e innocente figlia di Spagna piegata ed imbruttita dalla violenza del potere. Dolce e inconsapevole, la sua voglia di vivere sarà atrofizzata dalle catene che la porteranno sul limitare della follia.
Un film ricchissimo, il cui simbolismo richiederebbe lunghe pagine di commenti e che certamente merita una visione non superficiale. Buoni i costumi, le ricostruzioni del XXVIII secolo, le prestazioni degli attori. Ricco altresì di rimandi al presente, dove non si è ancora abbandonata la tendenza ad esportare la propria visione del mondo con le armi.
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